Quando volontariato
significa “rivisitazione” del proprio modus di intendere e di operare. Dall’agire
collettivo all’azione più “profetica” per un più concreto e diretto
beneficio del prossimo bisognoso,
unico vero protagonista dell’umana solidarietà
Ernesto Bodini
Il 3 dicembre 2015 è stata proclamata la Giornata mondiale del Volontariato,
evento che si annovera ogni anno dal 1985. Un trentennio per ricordare, rinsaldare,
consolidare valori civili ed etici tra i popoli basati sulla comune
solidarietà. Ma c’è proprio bisogno di creare ricorrenze per rammentare (o
infondere) quello che dovrebbe essere il modus operandi di ciascun individuo
che abita il pianeta Terra? E pur ammettendo la “razionalità” di tale annuale
ricorrenza, con quale criterio si intende proseguire affinché la collettività
concepisca (senza indugi e dubbi di sorta) che il bene comune lo si raggiunge
anche con un minimo gesto di umana solidarietà? Alla luce dei fatti si può
riscontrare che purtroppo nemmeno gli esempi di bene e per il bene si fanno strada
nella mente “contorta” di molte persone, e ciò indipendentemente dalla loro
cultura e dal loro credo religioso. In merito a questa sorta di negatività
sempre più ricorrente si potrebbero fare non poche illazioni seguite da
interpretazioni, ma nessuno è comunque in grado di addivenire ad una
considerazione univoca e inequivocabile… Personalmente, agli albori del mio
intendere la solidarietà da esprimere collettivamente, ho fatto parte di almeno
una decina di associazioni di volontariato operanti sul territorio nazionale e
regionale, soprattutto in ambito socio-sanitario e socio-assistenziale. I primi
anni mi hanno trovato di buona volontà ma inesperto e, nonostante ciò, tra esse
(sia pur con qualche eccezione) ho potuto individuare incongruenze,
disaccordi, dissapori, invidie, rivalità, improvvisazione, millantato,
presunzione, protagonismo ed altro ancora; caratteristiche di un modus operandi
non proprio in linea con i principi statutari, peraltro molto simili tra tutte
loro. Con il tempo, per svariate ragioni, mi sono distaccato quasi sempre
spontaneamente abbandonandone l’operatività ma non disconoscendo i principi e
le finalità per cui si sono costituite.
Il decimo
“divorzio” di circa due anni fa, da una associazione vivace ma totalmente non
più in linea con il mio modo di intendere la vera operatività del bene comune,
mi ha fatto ricredere sull’agire collettivamente, preferendo il volontariato
comunemente inteso all’azione più profetica, più solitaria, senza
“intermediari” e per questo senza finalità di protagonismo, mantenendo il
rapporto di solidarietà direttamente con l’interessato in condizioni di un suo
bisogno manifesto, reale… senza equivoci, ben lontano da ogni riferimento al
denaro o ad altri beni materiali che ho sempre ripudiato poiché il mero
materialismo non avvicina la generosa intenzione, ma la allontana… Quest’ultima
esperienza, durata circa tre anni, in cui avevo ruoli operativi soprattutto
nell’ambito della comunicazione a livello nazionale, mi ha indotto ad avvalermi di quel modus
operandi che i latini definivano “ubi
libertas ibi patria”, volto unicamente all’altruismo e alla solidarietà che
vanno ben oltre le normative vigenti,
oltre al fatto che la libertà consiste nel vivere doveri e diritti ignorando le
parole, mettendo così in evidenza che la chiarezza è una giusta distribuzione
di ombre e luci. Anche in questa realtà, come in quelle precedenti, non ho mai
inteso esprimere un vero e proprio “Jaccuse” di Emile Zola, in quanto non
esiste per fortuna un analogo “Alfred Dreyfus” all’italiana, ma più
“semplicemente” attestazioni di un accumulato malessere aggravato dal fatto di
averlo vissuto proprio in contesti in cui si doveva agire nel bene e per il
bene di sofferenti e particolarmente bisognosi. Un malessere che mi ha indotto
a rivedere il concetto di volontariato associativo poiché i drammi umani
dell’esistenza hanno il loro prologo umano ed il loro epilogo immediato, nel
cielo della filosofia, un cielo non sempre terso e sereno, quando si riduce ad
un’immagine ingrandita e riflessa, se non rovesciata, della coscienza umana
nelle sue continue fluttuazioni…
Parimenti
non ho mai serbato rancore o sentimento analogo ad alcuno, nemmeno nei
confronti di chi propenso a lanciare “dardi avvelenati”, fedele osservante del
concetto “Accipere quam facere praestat iniuriam”; al contrario ho provato e
provo profonde delusione ed amarezza per aver speso parte della mia vita in
modo non utile ai destinatari a cui era rivolto il mio pensiero e il mio agire;
oltre al fatto di aver visto frantumarsi la trasparenza e il buon dialogo,
requisiti indispensabili alla crescita umana, culturale e… sociale. Ma tant’è.
La nostra cultura mediterranea (ed oltre) non ha ancora raggiunto l’apice della
comune condivisione sul concetto volontaristico e, più specificatamente, sul
come essere operativi in modo razionale e senza… sbavature. In più occasioni ho
scritto che il volontariato di per sé è un lodevole impegno di aggregazione
sociale che in più realtà ha ragione d’essere, ma che non dovrebbe “sanare” le
conseguenze del nostro Welfare State (dall'inglese "benessere", ossia la congèrie delle politiche pubbliche attuate da uno Stato con l'intento di intervenire in una economia di mercato, al fine di garantire sia l'assistenza che il benessere della popolazione e migliorarne quindi le condizioni di vita) ;
occasione in cui davo per inteso l’approfondimento sulla filosofia della
solidarietà spontanea, ma non ho mai ricevuto alcun riscontro di disapprovazione. Una
“assenza”, questa, che ha eluso l’importanza del buon cooperare nella ricerca
di un fondamento saldo per la nostra volontà di lavoro non profit e progresso
(il “vero” volontariato è una professione che per crescere ed “imporsi” con
utilità non ha bisogno di gloria e di competizioni tali da sconfinare nel mero campanilismo e nell’egocentrismo), fondamento individuabile nella
interpretazione della nostra vita che ci circonda e nel significato che ad essa
attribuiamo.
Probabilmente,
secondo i principi di prudenza, opportunità e moralità, sarebbe utile
ipotizzare un “Nuovo Umanesimo” (sia sotto il profilo culturale che della
dignità) che implichi la capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei
problemi; la capacità di comprendere le implicazioni per la condizione umana,
la capacità di valutare con obiettività i limiti dell’agire e le possibilità delle
conoscenze nell’ambito della solidarietà; come pure l’elaborazione dei saperi
necessari per comprendere l’attuale “status” dell’uomo che lo vede sempre più
al centro delle dicotomie comportamentali. Ma alla luce dell’attualità (sempre
più perpetua) mi rendo conto che ciò non è possibile, se non utopistico. Ecco
che allora non ha alcuna ragione d’esistere una forma di aggregazione (ben
salvaguardando le eccezioni) al fine di evitare di cadere nel burrone della
“inutilità” del miio agire collettivo, al quale dò oggi un valore generale e
specifico assai diverso… e che ben pochi comprenderebbero. Del resto tutti i
nostri proponimenti definitivi vengono fatti in uno stato d’animo che non è
destinato a durare, e proprio per questa conseguenza ho imparato che i cambiamenti
del comportamento umano non avvengono mai senza (talvolta seri) inconvenienti, e
che mai procedono bene le cose che dipendono da molti. Tutto ciò mi ha indotto
a ri-considerare con concretezza quello che ritengo essere più saggio, ossia
perseguire un volontariato più “profetico” per tramutarsi, ancor meglio, nella
più semplice, spontanea e diretta solidarietà nei confronti del singolo a
garanzia di una maggior concretezza e meno dispersione…, e per questo, per
quanto possibile, lontano dai riflettori.
Sono
perfettamente conoscio che andare contro le opinioni “dominanti” di chicchessia è tra i più difficili atti che si possano compiere, specialmente nell’ambito della
solidarietà umana, e poiché non esiste l’eroe dell’azione ma quello della
rinuncia, del sacrificio e dell’umiltà (pane e umiltà non hanno mai procurato
indigestione ad alcuno!), la solidarietà il più delle volte può essere intesa
come pura invenzione dello spirito, ossia una sorta di mero egoismo che ha
origini ancestrali, ma la sua concretezza deve indurci a considerare che
l’unico vero protagonista è sempre colui che vive nella condizione di bisogno;
quindi il malato, il debole, il povero, e non chi è al suo servizio, e tanto
meno chi si presta a fare volontariato. Tuttavia, esistono tre maniere complementari
di percepire le verità nella vita e nel comportamento di tutti noi: la ragione,
la rivelazione e il coraggio. Ed è esattamente quello che vado affermando con
queste mie considerazioni che lascio scritte e depositate giacché solo sulla
carta l’umanità ha ottenuto la gloria, la bellezza, la verità, la sapienza, la
virtù e l’amore durevole.
Poiché in
me rimane sempre traccia di un maturo sentimento di bontà (senza firme e
distintivi), ritengo che la poesia rappresenti la migliore espressione letteraria
per tramandare ai posteri il valore
della cultura umanistica con la quale ho inteso operare sino ad oggi, talvolta
mettendo a “repentaglio” la mia reputazione a causa del prossimo “poco
accorto” nei confronti di Enti pubblici e privati. Testimonianze di un
“dissidio” fra finito ed infinito, tra realtà e ideali, che hanno caratterizzato
(e caratterizzano) i miei ideali vissuti comprendendo troppo la sofferenza
altrui e per nulla la mia. Evidentemente, alla luce dei fatti reali sinora
manifestatisi, il perseguimento per il giusto, come sempre nella vita, non
trova spazio ed onore. Per tutte queste ragioni ritengo un toccasana (anche per
me stesso) riproporre i versi di Giacomo Leopardi, mai più opportuni come in
circostanze in cui tutti, a vario titolo, siamo coinvolti nel nostro vivere
quotidiano.
L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle/e questa siepe/
che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e
rimirando/interminati spazi di là da quella/e sovrumani silenzi/e profondissima
quiete io nel pensier mi fingo/ove per poco il cor non si saura. E come il veto
odo stormir tra queste piante/io quello infinito silenzio a questa voce vo
comparando: e mi sovvien l’eterno/e le morte stagioni/ e la presente e viva/e il
suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è
dolce in questo mare.
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