A distanza di un quarto di secolo
della scomparsa, ricordarla non solo è un dovere ma
anche un “impegno” volto a valorizzare la dignità dell’essere umano, specie se sofferente
ROSANNA BENZI, ESEMPIO SIMBOLO
CONTRO LA DIVERSITÁ
Una donna “coraggio” che ha osservato il mondo da uno
specchio, amando la vita e lottando in difesa dei più deboli
di Ernesto Bodini
Era allegra, ottimista, solare: amava la
vita, sino all’inverosimile. Un amore che si è spento all’età di 42 anni il 4
febbraio 1991 a causa di un tumore, nella sua cameretta adiacente il Pronto
Soccorso dell’ospedale San Martino di Genova, dove era ricoverata da 29 anni a
causa del virus della poliomielite che aveva contratto (il vaccino orale Sabin
in Italia non era ancora obbligatorio) e che le aveva paralizzato i muscoli
respiratori. «Nel gennaio 1962 – ha raccontato più
volte – avevo portato mio fratello a farsi vaccinare contro la
poliomielite. Lo feci contro il parere dei miei genitori e di mezzo Morbello (un paesino della
provincia di Alessandria, dov’era nata il 10 maggio 1948). Erano i primi vaccini che arrivavano lassù e la gente, un po’
ingenua e molto ignorante, non li vedeva di buon occhio. Mio fratello aveva due
anni, e il fatto che fosse così piccolo aumentava l’apprensione di mia madre: «Guai a te se fai una cosa del genere!», minacciava. Io non mi feci
vaccinare e nessuno mi prestò troppa attenzione, perché ero grande: avevo 14
anni». Il 16 marzo dello stesso anno accusava i
primi sintomi della paralisi poliomielitica e, da quel momento, ha vissuto in
un polmone d’acciaio: un grosso cilindro metallico, color beige (che lei
scherzosamente definiva la “testuggine” o lo “scaldabagno”) che la faceva
respirare. Soltanto la testa sporgeva, appoggiata ad un cuscino. Uno specchio,
come un grande retrovisore, le permetteva di guardarsi attorno e, nonostante
tutto, diceva: «Mi sento liberissima, più
libera di tanti altri; perché se sei libero dentro, sei libero sempre». Quasi un trentennio ad osservare il mondo intero, ma ha subito
scommesso contro la morte liberandosi dalle illusioni, rifiutando il dolore, la
compassione, il pietismo, ma non la speranza e con essa sempre più
coscientemente la voglia di vivere; con la sua carica di vitalità, di allegria,
di combattività è diventata il punto di riferimento di tutti gli handicappati e
ha commosso l’Italia intera. Ed è sottile il confine, ma difficile da valicare,
fra la rassegnazione alla crudeltà del destino, fra il sentirsi vittima e
l’essere invece una persona che decide di non lasciarsi sopraffare dalla
sventura ma lottare per dare un senso, malgrado tutto, alla propria esistenza.
Una determinazione che ha voluto testimoniare
con la sua prima pubblicazione “IL VIZIO DI
VIVERE” (titolo che ha originato un film per la TV
diretto da Dino Risi, e interpretato dall’attrice e fotomodella Carol Alt),
attraverso la quale la ragazza diventa donna, non rinuncia allo studio, alla
bellezza, al sesso, all’amore, sostenuta da una vivida intelligenza dopo che la
sorte le ha sottratto la capacità di muoversi. È il racconto della sua storia
anche per farci capire perché dica: «Sono convinta di aver vissuto
anni che valeva la pena di vivere e non sostituirei con altri». Un racconto per fortuna contagioso perché Rosanna, lungi dal
voler annoiare o rattristare, ci coinvolge con dolcezza e intelligente ironia,
con spiccato senso dell’umorismo negli episodi che l’hanno accompagnata passo
passo durante il suo caparbio, inarrestabile cammino verso l’ottimismo e verso
la vita, tanto da pubblicare “GIROTONDO IN
UNA STANZA”, una raccolta di lettere e poesie sui
temi dell’handicap, della natura, dell’amore, dei bambini, della solitudine,
della disuguaglianza, etc., che costituiscono un coro di tanta gente comune, e
non, nel quale Rosanna si inserisce con discrezione; un concentrato di umanità,
voglia di vivere e di amare, che ognuno dovrebbe essere in grado di far nascere
dentro di sé. Riguardo ai problemi dell’handicap dichiarò in una intervista ad
un quotidiano: «Essere handicappati è anche uno
stato d’animo. Se si ritiene che io sia handicappata perché non riesco a
muovermi e parlo guardando uno specchio, posso dirmi d’accordo, ma se si crede
che mi senta meno di un altro, dico che la mia immobilità non basta a farmi
perdere per strada le occasioni che mi sono concesse». Ma l’impegno della Benzi è andato oltre. Ha fondato e diretto “GLI ALTRI”, un
periodico trimestrale dedicato ai problemi dell’emarginazione nei suoi aspetti
più ampi… Una iniziativa editoriale obiettiva e priva di retorica, nata sulle
basi di un’inchiesta a macchia di leopardo dalla quale emerse un quadro
allarmante: la gente era piena di pregiudizi, non si occupava o ignorava
completamente i problemi degli handicappati. Anche i politici li trascuravano
sistematicamente in quanto trionfava, a destra, una visione pietistica e
caritatevole; la sinistra, da parte sua, mentre rifiutava questa impostazione
non offriva alternative, al di là di alcune enunciazioni di principio valide ma
che da sole non bastano. Nell’editoriale del primo numero (gennaio 1976), tra
l’altro, scriveva: «… la rivista non si rivolge solo agli handicappati e ai loro
problemi, ma vuole occuparsi anche di tutti gli strati sociali emarginati,
quindi i lavoratori, il sottoproletariato, le stesse donne, con i quali gli
handicappati sono legati nella lotta contro ogni tipo di sfruttamento». Il primo numero aveva fatto il tutto esaurito (oltre 3.000 copie
vendute, senza alcuna pubblicità inserita).
Molte le tematiche trattate: oltre
al diritto al lavoro, all’abbattimento delle barriere architettoniche, alle
pari opportunità, all’aborto, anche quella relativa alla sessualità è stata
affrontata senza tanti “fronzoli”, tesa a dimostrare che l’handicappato non è
un “asessuato” e che anche per lui il sesso e l’amore sono delle componenti
fondamentali della vita. Una vita ricca di progetti e di lavoro ma anche di
molte amicizie, e intense relazioni umane come si evince dai suoi libri e dalle
numerose collaborazioni; una vita autentica, seppur breve. Le avevano chiesto
qual era un suo grande desiderio. Aveva risposto: «Andare
da sola sulla spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, e fare una lunga camminata
sotto la pioggia». Nessuna prigioniera fu più
libera di lei, libera di agire per sé e per il suo prossimo al quale ha
trasmesso i più profondi valori esistenziali, al di là degli schemi che
pretendono di catalogare le cosiddette “diversità” e “normalità”, invece di
lasciar spazio alla originalità e al rispetto di ogni persona, qualunque sia il
suo contesto esistenziale. Nel 1990, poco prima di morire, è stata eletta dal
Parlamento Europeo “Donna d’Europa”. Oggi, a mio parere, la eleggerei (alla memoria) “Donna dell’Universo Sociale”,
dove tutti hanno diritto di avere il “vizio di vivere!”. E vorrei concludere citando una delle sue affermazioni riportate nella sua autobiografia: "Se domani potessi uscire di qua e andarmene per strada sarei molto felice, ma sai quanta gente di quella che va per strada vive meno di me la propria vita? Quanta gente la spreca, o la lascia passare distrattamente? Io ho imparato a non buttare via niente".
(La foto in alto è tratta da Repubbica.it; l'ultima in basso da Publifoto)
Commenti
Posta un commento