QUALE FUTURO PER LA SANITA' ITALIANA E PIEMONTESE?

Incontri sul futuro della Sanità italiana e piemontese alla Accademia di Medicina

UN PANORAMA DALLE PROSPETTIVE OTTIMISTICHE SE SI É IN GRADO
DI AFFRONTARE DETERMINATE SFIDE NEL PROSSIMO VENTENNIO

Restano “cruciali” i nodi della riorganizzazione della Rete Ospedaliera e della
massima condivisione organizzativa della Rete Oncologica, ma soprattutto particolare attenzione dev’essere data alla concreta operatività della Rete territoriale

Ernesto Bodini



Non è certo retorica continuare a domandarsi quale sia il destino della Sanità italiana, visto il perdurare della cosiddetta spending review, e del costante “dominio” del federalismo sia sanitario che economico. E c’è ragione di credere che il nostro SSN, per quanto ritenuto tra i migliori al mondo, possa subire qualche revisione sia dal punto di vista del suo totale mantenimento che da quello della buona conduzione. Un insieme di preoccupazioni e interrogativi che hanno dato adito ad una serie di interventi sotto il titolo “Dove va la Sanità? Criticità e prospettive”, organizzati nei giorni scorsi dalla Accademia di Medicina di Torino, coordinati dal presidente dott. Alessandro Comandone e introdotti dal prof. Benedetto Terracini, emerito epidemiologo torinese. Ma come evolverà la Sanità nei decenni futuri? Quesito sul quale è intervenuto Renato Balduzzi (nella foto), professore di Diritto Costituzionale, membro del CSM ed ex ministro della Salute, affermando che si svilupperà a seconda degli orientamenti  della politica, delle società scientifiche e della popolazione attiva… Una sorta di sfida a più riprese come quella di mantenere un sistema sanitario in quanto «la sanità italiana – ha esordito – è avanti di molto rispetto ad altri comparti istituzionali, e ne sono esempio la Rete Oncologica Piemontese (l’unica menzionata nell’ultimo Piano Oncologico Nazionale, nda) e la Rete dell’Emergenza “118”; acquisizioni peraltro particolarmente attive che partono concettualmente e praticamente a valle della Legge 833/78, ossia quando altrove di Reti non si faceva alcun cenno». Un sistema al passo coi tempi, ma in realtà che cosa manca? Secondo Balduzzi (ma é anche opinione ormai comune) ancora assenti sono le risposte del territorio, a cominciare dagli esiti relativi a risorse e aspettative, come quelle rappresentate dai MMG (medici di famiglia e pediatri di libera scelta); una realtà in parte ancora da esplorare in quanto non sempre convergono le capacità di conoscersi e valutarsi, ma anche la capacità di tenere uniti l’aspetto clinico-sanitario e l’aspetto socio-sanitario in particolare, e per estensione tutto ciò che rappresenta l’ambito socio-assistenziale, tant’è che a riguardo ci sarebbe ancora molto da fare. «La seconda sfida – ha spiegato – riguarda il fatto che il SSN può “orientare” le preferenze dei pazienti, degli assistiti, degli operatori e ciò seguendo passivamente o valutandole in modo selettivo, cui segue il problema della medicina difensiva e dell’appropriatezza. Ma in questo scenario mancano le leggi al fine di favorire la generalizzazione delle buone pratiche di approprieatezza in ogni disciplina».
Un terzo scenario, secondo il cattedratico, forse quello attualmente più contrastato, è relativo alle caratteristiche strutturali in quanto il nostro sistema sanitario è decentrato in una cornice nazionale: dalla fine degli anni ’90 ad oggi si sono succeduti molti avvenimenti che non sono circoscrivibili solo alle Regioni, ma che hanno trovato nelle stesse un focus negativo unitamente alla difficoltà di concepire un Servizio Sanitario unico, articolato in 21 “sottosistemi”, dando l’idea a una svalutazione… «Il settore sanitario, rispetto ad altri settori – ha sottolineato Balduzzi – è molto consolidato, ma è anche il sistema più… regionalizzato, e in ragione di ciò c’é qualcosa che non funziona quando si dice che l’avvenire della sanità italiana consiste nell’appropriatezza da parte dello Stato  di “pezzi” della sanità». E allora, c’é bisogno di più Stato in Sanità? «Di uno Stato migliore sì – ha precisato – nel senso che c’é bisogno di maggiori controlli (i piani di rientro sono una realtà da molti anni), e quindi la necessità di responsabilizzare sempre di più le Regioni e sanzionarle in caso di inadempienza…». L’ultima sfida cui ha fatto cenno il relatore, è data dal fatto che tale sistema sanitario non può essere ulteriormente definanziato, e questo aspetto rappresenta un punto veramente cruciale perché se non c’è un ciclo economico virtuoso è quasi impensabile aumentare le risorse in sanità, anche perché il nostro sistema ha dimostrato di saper fornire un livello importante di prestazioni con una capacità complessiva di incidenza sulla spesa pubblica, comparativamente modesta con altri Ordinamenti. E se non si comprende che c’é un limite al definanziamento della sanità, il risultato non può essere che la demotivazione di chi opera con la conseguenza di diseguaglianze nell’accesso alla salute. «Nell’ospedale – ha concluso il prof. Balduzzi, citando Tommaso Moro – c’é una profusione per tutto quello che serve alla salute, e vi è praticata una tale cura e cortesia, una tale assiduità nell’assistere i malati da parte dei medici più esperti, da far sì che non soltanto vi venga ricoverato controvoglia, ma che ogni cittadino con problemi di salute preferisca il letto d’ospedale a quello di casa propria. Ma a parte questa citazione utopistica, a mio parere la sanità italiana nei prossimi vent’anni evolverà se la “filigrana” interna al sogno utopico di Tommaso Moro saprà essere mantenuta, ovviamente attraverso la coralità tra il legislatore, il governo, il sistema istituzionale della sanità, e attraverso la riflessione culturale e scientifica».

La ridefinizione della Rete Ospedaliera nell’ambito del SSN” è stato il tema trattato dal dott. Francesco Enrichens (nella foto), direttore del Dipartimento Emergenza e Accettazione della A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino che, a titolo esemplicativo, ha sciorinato alcuni dati dell’attività sanitaria piemontese, evidenziando, ad esempio, che nel 2014 i ricoveri sono stati 676.000 di cui 242.000 in urgenza; 1.700.000 sono stati i passaggi in P.S. di cui 1.600.000 identificati come codice bianco e verde. Cifre he stanno ad indicare che il 30% dell’attività di ricovero ospedaliero avviene ricorrendo al P.S., e che il 90% di questi è risultato inappropriato il ricorso al P.S. “Ma ciò non significa – ha precisato il relatore – che la Rete territoriale si deve organizzare in funzione di risoluzione dei problemi della inappropriatezza; tuttavia si tratta di considerare un territorio ben organizzato in grado di farsi carico dei pazienti attraverso l’intero percorso, intercettando l’ospedale soltanto nella fase acuta, e solo così è possibile fare affidamento al territorio stesso. Ed è inutile parlare di Reti Ospedaliere quando vi è un momento un po’ debole in quella che é la riconoscibilità della rete territoriale».  Esaminando i ricoveri ordinari  che sono 500 mila, il 47% sono considerati in urgenza, e i pazienti ultra 70enni rappresentano il 39% del totale, di questi il 56% considerati in urgenza, prendendo atto nel contempo che 153.000 di questi sono ultra 90enni, e la totalià riguarda soprattutto l’area medica. Ma il problema, come ha fatto rilevare il clinco dell’emergenza, è che i pazienti acuti in certi periodi dell’anno e in situazioni di territorio non sufficientemente disponibile, ricorrono comunque ed inevitabilmente in ospedale con la conseguenza di 27.000 ricoveri a rischio di inappropriatezza su un totale di 193.000, di cui 139.000 dimessi (14.000 in post acuzie, 8.000 in RSA e il rimanente in ADI. «É quindi importante – ha precisato il dott. Enrichens – una adeguata Rete territoriale: la Rete dell’emergenza-urgenza è “l’architrave” del sistema, e di conseguenza la Rete ospedaliera si allinea sui nodi dell’emergenza-urgenza, mentre quella territoriale deve essere preposta alla gestione di tutto il percorso del paziente».
Ma perché rimodulare la Rete ospedaliera? Secondo il dott. Enrichens la stessa, con la Rete territoriale dalle molteplici inappropriatezze, non è più economicamente sostenibile. Il Patto della Salute 2014/2016 parla di definizione di standard qualitativi, strutturali e tecnologici relativi all’assistenza ospedaliera; uno standard che prende forma nel 2011 e diventa legge con il Decreto n. 70 del marzo 2015; e da questo emerge che la Rete ospedaliera deve essere articolata per bacini di utenza e per disciplina. «Quest’ultima – ha precisato il relatore – sta diventando la “salvaguardia” del SSN in quanto stabilisce che cosa deve esserci in un Dipartimento di emergenza-urgenza di II° livello, e che cosa in quello di I°livello in un P.S. di base, ed è di salvaguardia dei P.S. di ospedali in aree disagiate, come quelle delle comunità montane». É dato a sapere che il Regolamento è stato un po’ “frenato” dalle strutture private accreditate, il cui malessere è dato dalla non razionale distribuzione di laboratori e servizi con notevoli differenze tra una regione e l’altra…; come pure diseguale è il rapporto tra volumi ed esiti, quindi risulta evidente che difetta anche la comunicazione tra operatori e cittadini. «Ma per attuare una buona organizzazione  della Rete ospedaliera – ha concluso il dott. Enrichens – bisogna potenziare il territorio con una piattaforma tecnologica condivisa (vedi accordo Stato-Regioni del 7/2/2013, nda), la continuità assistenziale, il rafforzamento dei Distretti e le Centrali operative delle cure primarie (numero unico telefonico europeo 116 e 117, nda). Tutto questo potrà garantire accessibilità e rintracciabilità dei servizi del territorio».

Sul tema “La Rete Oncologica Piemontese: un  esempio di organizzazione sanitaria” è intervenuto il dott. Osacr Bertetto (nella foto), oncologo clinico e direttore della Rete Oncologica Piemontese spiegando, ad esempio, che quando si istituiscono le Reti ci sono molte interazioni tra i vari soggetti che le compongono, con l’esigenza di valutare quando diventa più conveniente la collaborazione piuttosto che la competizione, come del resto avviene oggi sin dalla Riforma del 1999. La complessità dei bisogni sanitari trova difficilmente adeguate risposte in un’unica  struttura sanitaria: chi si ammala oggi di un tumore, ad esempio, quasi mai può trovare in un’unica Azienda, per quanto di grandi dimensioni, la risposta a tutte le sue problematiche; mentre nel suo percorso di cura il paziente può invece scegliere tra le varie strutture che costituscono la Rete. «Se si cercano i vantaggi della competizione nella nascita delle Reti, come nell’ambito dell’oncologia – ha spiegto –, bisogna risalire agli anni ’90 per trovare il Cancer Conference Center, e in seguito il Cancer Conference Network attuale visione che anche la Comunità europea sta indicando come soluzione dell’Oncologia, e il Piemonte è la regione più virtuosa unitamente alle Fiandre e alla Catalogna. Dal 1995 ad oggi molte altre nazioni hanno affrontato questa tematica: Inghilterra, Galles, Scozia, Nuova Zelanda, Australia, Canada, Paesi nordici, Francia e Spagna. Ma costituire delle Reti in Sanità non è facile perché per costruire una Rete bisogna unire diversi approcci, ossia coinvolgere le molteplici Discipline specialistiche, mettere insieme più opertori che, formati adeguatamente, devono essere preposti alla reciproca collaborazione. Ciò richiede attenzione ai bisogni organizzativi, economici, sociali e cuturali; ma anche raggiungere tutte le componenti che concorrono al percorso assistenziale, e se in una Rete una di queste componenti non funziona il percorso stesso ne è compromesso. Quindi, una Rete deve essere pluridisciplinare». Una delle attuali carenze della Rete oncologica piemontese è l’infrastruttura informatica tanto da inceppare un sistema, probabilmente per un mancato governo e di una certa insipienza amministrativa degli anni scorsi, tant’é che ogni Azienda sanitaria si è informatizzata in mdo non omogeneo… Quindi, secondo l’oncologo piemontese, si tratta ora di far dialogare fra loro tutti i sistemi informatici, e ciò significa costruire delle piattaforme di integrazione delle informazioni prodotte dai diversi software, oltre a rendere operativo (nel contempo) il fascicolo eletronico sanitario del paziente. «Ma per funzionare bene – ha spiegato Bertetto – la Rete ha bisogno di un monitoraggio continuo e di una capacità organizzativa per fare sistema: occorre, cioé, integrare stili di direzione distanti, riorganizzare tra loro procedure differenti, formare équipe tra le diverse discipline che provengono da contesti dissimili. Si tratta, insomma, di attivare le interconnessioni coordinate da una “regia” che, nelle Rete oncologica, è rappresentata nel Centro Accoglienza Servizi (CAS), a cui si deve rivolgere il cittadino quando c’é il sospetto di una neoplasia, che ha il compito di accogliere e coordinare l’espletamento di tutti gli esami che concorrono alla diagnosi, alla stadiazione e a condurlo al Centro di riferimento appropriato, dove il Gruppo Interdisciplinare Cure (GIC) interverrà in merito attraverso gli specialisti interessati”.
La Rete Oncologica Piemontese (ROP) è nata nel 2000 ed è la prima in Italia ad essere stata trasformata in Dipartimento funzionale interaziendale, che comprende tutte le Aziende sanitarie del Piemonte e della Valle d’Aosta (interdiscilipinarietà), e che connette le Aziende della Regione con un piano annuale. Rete significa anche innovazione e ricerca, ed è operativo un protocollo di sorveglianza attiva nei tumori prostatici a bsso rischio; ma é anche evidente che la ricerca in ambito di Rete oncologica è diversa dalla ricerca nell’ambito dell’industria farmaceutica. «I nostri studi sulla strategia terapeutica e di carattere assistenziale – ha specificato il dott. Bertetto, nelle sue conclusioni –, non solo sono orientati alle tecnologie ma sono anche volti a prendere in carico la persona malata. Inoltre, i trials non sono solo esplicativi ma anche pragmatici, con particolare attenzione anche alle cure palliative e alla qualità di vita, alla ricerca non soltanto medica ma anche infermieristica e multidisciplinare. Infine, tra le competenze della Rete non può mancare la formazione dando maggior sviluppo alle rispettive competenze, come pure la visione periodica dei protocolli e delle linee guida». É evidente, secondo il responsabile della Rete Oncologica Piemontese, che tutto ciò riduce gli errori professionali, l’esperienza negativa dei pazienti, gli sprechi, la variabilità nella pratica clinica, l’adozione acritica di interventi a basso valore innovativo, il ritardo nell’introduzione di interventi ad elevato valore innovativo ed eventuali dubbi…



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