UN LIBRO
PER RICORDARE VITE VISSUTE TRA
ISTITUTORI
ED ALLIEVI DI DON GNOCCHI
Il collegio torinese è stato una "pietra miliare" per il
recupero fisico e psicologico dei mutilatini e
poliomielitici
di
Ernesto Bodini
Trascorrono gli anni ma le
pubblicazioni sulla figura e l’opera di Don Carlo Gnocchi (1902-1956) si
susseguono, e permangono non solo nei cataloghi degli editori ma anche nelle
librerie tanto da suscitare il continuo interesse dei lettori appassionati e dei
biografi. L’ultima che mi è pervenuta (quasi casualmente) che porta il titolo Don Carlo Gnocchi a Torino –
Cinquant’anni di storia del Centro “Santa Maria ai Colli” (Effatà
Editrice, pagg. 142, € 12,91) di Laura Zanlungo, è del 2000 ma storicamente
mantiene quel valore testimoniale rappresentato dalla acquisizione di questa
sede sulla collina torinese nel 1950, per ospitare i mutilatini e i
poliomielitici, prima, ed altri soggetti colpiti da diverse patologie
invalidanti. Il lungo percorso di questo collegio (uno dei principali voluti da
Don Gnocchi) ne evidenzia le caratteristiche logistiche, strutturali ed
organizzative volte alla accoglienza dei primi mutilatini di guerra (e civili
di guerra), la cui conduzione era demandata ai Fratelli delle Scuole Cristiane
ed assistenti laici, come urgente risorsa per la loro rieducazione motoria e
preparazione alla vita sociale. Il collegio, che sin dall’inizio aveva una
capienza per oltre 400 ospiti, è stato diretto da fratel Armando Riccardi e
fratel Angelino Villata e successivamente da fratel Bertrando Garavelli che
hanno contribuito al profondo consolidamento con il mondo industriale, politico
e culturale torinese. Significativa l’impostazione medico-sanitaria grazie
all’appoggio dell’Alto Commissariato Igiene e Sanità che, a partire dal 1955,
si è potuto aprire un nuovo capitolo volto al recupero dei poliomielitici le
cui esigenze erano differenti rispetto a quelle dei mutilati, in quanto la
condizione fisica dei primi non è mai stabilizzata, ma in continua evoluzione.
Un’attenzione resa possibile con l’opera degli ortopedici prof. Fusari e del
prof. Francesco Pollono, e delle fisioterapiste, che avevano a disposizione
nuovi impianti per le cure idrofisioterapiche, costruiti secondo i più
aggiornati criteri terapeutici.
La vita ad internato
comprendeva l’educazione morale e spirituale dei fanciulli, impartita dai
fratelli delle Scuole Cristiane, rivestendo un ruolo direttivo del Collegio ed
esercitando un apostolato di servizio; come pure l’istruzione che veniva
garantita dai docenti statali per quanto riguarda le scuole primarie,
l’avviamento commerciale e tecnico-professionale. Una toccante testimonianza è
data dalla prof.ssa Luisa Guidobono Cavalchini, che al collegio torinese ha
dedicato gran parte della sua carriera professionale come insegnante di
francese e inglese. «I mutilatini – ricorda l’ormai ottuagenaria
insegnante – erano molto bravi anche nelle discipline sportive e facevano cose
che nessuno avrebbe mai immaginato. Nelle partite di calcio spesso disputavano
con altre scuole e quasi sempre vincevano poiché erano molto affiatati. Il
ricordo di quegli anni per me è ancora vivo. È sempre un grande piacere incontrare
quei giovani: io li chiamo sempre ragazzi, anche se ormai molti sono diventati
nonni. Sento un profondo affetto per loro, che con il passare del tempo è
aumentato…». Ma l’autrice non manca di riportare anche qualche
testimonianza di ex allievi, come quella “toccante” di Mario Bianco (classe
1946), colpito dalla poliomielite agli arti inferiori all’età di otto mesi.
Lungo e ricco il suo percorso prima di arrivare negli istituti della Fondazione
Don Gnocchi, non privo di parentesi negative come le difficoltà per via
dell’handicap motorio. Ma con l’ingresso nel collegio torinese nel 1957 per
frequentare i tre anni di Avviamento Commerciale il suo adattamento è stato più
“lineare” e l’esperienza più piacevole. «In
questi primi tre anni – è quanto riporta l’autrice dalla
testimonianza di Bianco –sono stato seguito in maniera
eccezionale dal punto di vista fisioterapico… Sono grato per quel che è stato
fatto per me che mi ha permesso di camminare con i tutori, ma senza bastoni…
Vivevamo in un ambiente in cui ognuno aveva un problema ma non avevamo tempo di
piangerci addosso; tra di noi c’era un buon clima, un’amicizia che non guardava
in faccia i nostri problemi individuali o i diversi studi che ognuno di noi
seguiva».
Bianco è uscito dal collegio
nel 1963 (aveva 17 anni) e subito ha intrapreso varie attività ed oggi è
pienamente realizzato, forte del fatto che una persona, per quanto possa avere
delle limitazioni deve avere la possibilità di esprimersi, utilizzando le proprie
potenzialità. Una filosofia che coinvolge tutta la persona nella sua
complessità e nei suoi numerosi aspetti, proprio come era nell’intendendimento
e nell’impostazione di Don Gnocchi ospitando questi ragazzi nei suoi Istituti,
facendoli diventare uomini e pronti ad affrontare la vita. Positiva anche
l’esperienza di Dino Marola (classe 1937) invalido per postumi ad una gamba a
causa dell’esplosione di un ordigno bellico, entrato nel collegio nel 1950 e
rimasto sino al 1955, che testimonia: «Il
ricordo che serbo di quegli anni è buono: l’esperienza del collegio mi è
servita parecchio; penso che ci abbia maturati, ci abbia resi uomini, ci abbia
aiutato a uscire allo scoperto nella vita, a non sentirci inferiori nei
confronti degli altri. Il mio rapporto con i compagni era ottimo, e dai
Fratelli delle Scuole Cristiane ho avuto molto». Ma non tutti,
purtroppo, conservano un buon ricordo del collegio, ad esempio da parte di chi
scrive (classe 1951) in collegio dal 1961 al 1965 per postumi di poliomielite
all’arto inferiore. Una delle ragioni riguardava il rigido (e talvolta
eccessivo) comportamento educativo da parte di alcuni assistenti-educatori nei
confronti dei ragazzi, peraltro ammonito, come riporta l’autrice, da monsignor
Edoardo Gilardi (primo presidente della Fondazione succeduto alla morte di Don
Gnocchi), il quale nel licenziare gli assistenti implicati con la motivazione
“percosse ai ragazzi”, dichiarava: «La violenza del più forte verso
il più debole è sempre un sopruso ed è gesto di viltà e che l’educazione fatta
con la mano pesante non è formativa. La forza che bisogna adoperare è quella
morale che dia però sempre la sensazione di scaturire da un grande amore. È
vero che gli uomini non si fanno con dei modi blandi, effeminati…, ma con la
violenza fisica si semina odio e nell’anima dei fanciulli diffidenza e rancore».
Le esperienze che qualcuno non vuole ricordare sono sicuramente episodiche e
certamente sono riferibili a dopo la morte di Don Carlo. Il collegio torinese è
stato chiuso nel 1972, come del resto tutti gli altri sparsi in altre regioni,
ed é rimasta l’impronta storica voluta da Don Carlo Gnocchi, primo esempio di
cristiana bontà e affetto paterno, che con questo volume l’autrice ha voluto
rievocare.
(Foto in alto frontespizio del libro; foto in basso mutilatini nel collegio di Don Gnocchi)
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