Considerazioni sulle nostre “questioni”
giurisprudenziali
RICORDANDO LA SAGGEZZA E L’UMANITÁ DI AGOSTINO
VIVIANI.
UN PENALISTA VOTATO ALLA “VERA” GIUSTIZIA
di Ernesto Bodini
I
dibattiti relativi alle sempre più ricorrenti vicende giudiziarie del nostro
Paese: reati di ogni sorta (civili, penali e amministrativi), come pure le
polemiche sulla cronica ed eccessiva pendenza degli Atti processuali, il
difficile riconoscimento della responsabilità civile dei magistrati,
l’inosservanza di gran parte degli articoli della Costituzione che tanto si
decanta ad ogni angolo di strada, mi fanno tornare in mente la saggezza e la
professionalità del noto penalista Agostino Viviani (Siena 1911 – Milano 2009, nella foto
con l'articolista negli anni '90 a Torino) Professionista autorevole, anche
per l’impegno politico (membro del PSI) e culturale, membro laico del Consiglio
Superiore della Magistratura e primo firmatario per far passare la legge sulla
responsabilità dei magistrati. A questo riguardo, intervistato da un
giornalista nel 1994 in occasione di un convegno della Associazione “Vittime
dell’ingiustizia”, disse: «Le vittime dell’ingiustizia sono sempre di più.
C’é bisogno di ricordarlo? È tutta colpa delle indagini preliminari. L’accusa
ha una sua ipotesi, niente affatto dimostrata e non sa fare altro che arrestare
l’indagato e costringerlo a confessare». Il suo principio non fa una grinza
nella accezione del fatto che da tutti è accettato il principio che chi per
dolo o per colpa produce un danno ingiusto è tenuto a risarcirlo (art. 2043
C.C.), stabilite le distinzioni tra colpa e dolo (limitate per i pubblici
dipendenti e per alcune professioni al solo dolo o colpa grave, per cui la
regola vale (o dovrebbe) valere per tutti. E, a questo riguardo, diceva: «È
concepibile che per il magistrato si faccia una eccezione e così mostruosa, da
liberarlo dalla responsabilità civile in ogni caso, e cioé quando egli arrechi
danno ingiusto per dolo o colpa grave?... Stabilito il principio che anche il
magistrato risponde civilmente del danno ingiusto prodotto, si è cercato di
giustificare altrimenti la pretesa irresponsabilità dicendo che la
responsabilizzazione creerebbe una magistratura conformista che non compirebbe
più il suo dovere. Quanto a questo argomento sia deteriore non occorre illustrarlo.
Ci sono magistrati che nel loro lavoro hanno di mira soltanto la giustizia e
che non temono affatto la loro responsabilizzazione in sede civile, anzi
l’auspicano, sia pure costituendo in genere una maggioranza silenziosa».
Affermazioni che paiono essere
tuttora rispondenti, ed ancora più avvalorate, a mio avviso, dalle esplicative
pubblicazioni dell’avvocato senese, che a suo tempo ho recensito: “La degenerazione del processo penale in
Italia” (Ed. Sugarco, 1988), e “Il
nuovo Codice di Procedura Penale: una riforma tradita” (Spirali & Vel, 1989). Argomenti che avevano (e probabilmente hanno ancora) il sapore di una
vera e propria denuncia della disfunzione de nostro sistema giudiziario, tale da
sottolineare un atto di “coraggio” supportato da una lunga esperienza e da un
paziente lavoro di indagini e ricerche tra gli Atti penali nei vari tribunali
d’Italia: una sorta di “scarnificazione” del processo, tant’é che il titolo del
secondo libro non lascia dubbi sul giudizio dato dallo scrittore-avvocato sul
sistema penale italiano. Convinto sostenitore del seppur tenue ma
intramontabile diritto della “difesa sociale” (quella dei poveri, per
intenderci) e disponibile ad ogni iniziativa per il “recupero” dei diritti
umani, questo principe del Foro milanese ha ricevuto molti consensi perle sue
opere letterarie: saggi di estrema competenza interpretativa, descritti con
l’intento di raggiungere anche il lettore meno interessato.
Ma Viviani
è stato anche uno dei primi a mettere in guardia operatori del diritto e
cittadini rispetto ai pericoli del pentitismo. Oltre a dare alle stampe il
saggio “La chiamata di correo nella giurisprudenza” (Giuffré editore,
1991), il penalista nell’ottobre del 1990 tenne a Torino una conferenza proprio
sull’inquietante tema “Il pentito, questo sconosciuto”, in
occasione della quale illustrò la somma delle inefficienze della nostra
legislazione che, per non smentirsi, non risparmia neppure la “categoria” dei
pentiti: non certo priva di fratture e debolezze al suo interno, tant’é che a
Lucca corre un vecchio detto: “Se i pentimenti fossero camicie, uno avrebbe un
bel guardaroba”. «Tra questi individui – spiegò
senza mezzi termini – non c’é
quasi mai chiarezza per stabilire la sincerità del pentimento; una condizione,
questa, che non di rado trascende in veri e propri atti d’accusa e di delazione
per salvarsi o trarne qualunque tipo di vantaggio». Un
problema che “condiziona” non poco il sereno corso della giustizia che, se si
specchia nel nuovo (per quell’epoca, n.d.a.) e tanto decantato Codice (i cui
padri sono stati Vassalli e Pisapia), vede ancora oggi sempre più allontanarsi
la possibilità di adeguarsi alle convenzioni internazionali ed allo sviluppo
della cultura giuridica. «Ma c’è chi sostiene –
concludeva Viviani – che la
Costituzione sia da modificare, tutta o in parte; in realtà basterebbe
semplicemente applicarla». A questa considerazione verrebbe da
aggiungere che, se diamo per scontato che ogni riforma era in precedenza
un’opinione personale, ben si addice quanto sosteneva il politico e avvocato
Piero Calamandrei (Firenze 1889-1956): «Quando per la porta della
magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». E va
anche detto che il previsto (e perpetuo) impoverimento degli “effetti
giustizia”, ancora oggi sta a sottolineare come il legislatore, quando promulga
una nuova disposizione di legge, fa come quell’elefante che, calpestata una
quaglia, cercò di rimediare sedendosi sulle uova dell’uccello per tenerle calde.
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