CATERINA GHO: STORIA DI UNA SOFFERENZA
VISSUTA CON GRANDE DIGNITA' E RASSEGNAZIONE
di Ernesto Bodini
Ogni qualvolta si apre un
discorso sul dolore e sulla sofferenza si corre sempre un grosso rischio:
quello di non essere compresi. Le nostre tesi sovente vengono respinte od
eluse, senza il diritto di essere prese in considerazione o in qualche modo
soppesate. Ma se decidessimo una volta tanto di guardarci negli occhi, ci
accorgeremmo che è sparuta la schiera di persone con le quali siamo soliti
condividere gli ideali di vita: la maggior parte delle persone considera una
perdita di tempo qualsiasi pausa di riflessione e rinuncia a meditare sulle
origini della vita, per cercare una risposta al come e al perché del dolore e
della sofferenza del genere umano, del suo limite. Il nostro mondo si evolve
dal caos, dalla violenza e dall’imperfezione verso una meta finale, e la
sofferenza dei buoni è sempre stata un fattore determinante nel motivarne
l’ascesa. Ammirevole e commovente è l’esempio di Caterina Gho (per tutti Tinin) scomparsa nel 1989 dopo
oltre sessant’anni vissuti in un letto dell’allora Piccolo Cottolengo di Vinovo
(Torino), con dignità e paziente rassegnazione. Ma anche con umiltà, che ha
saputo trasmettere a quanti l’hanno conosciuta e avvicinata (compreso chi scrive,
negli anni ’70), accogliendoli sempre con il sorriso sulle labbra e
sottraendoli dall’imbarazzo di un incontro fuori dall’ordinario. Non credo che Tinin abbia mai avuto nostalgia
della vita attiva, perché ha continuato a condurre un’intensa esistenza
interiore, sostenuta da una sorprendente fede cristiana e una forza d’animo che
l’ha resa padrona del destino e trionfante sulle avversità. Tutto ciò sfidando
l’impossibile, come il lento evolversi della lunga malattia, che troppo
precocemente le ha precluso il “diritto” di condurre un’esistenza “normale”,
senza pretese o assurde ambizioni.
Caterina Gho (nella foto nel letto del Cottolengo di Vinovo) apparteneva a
quella schiera di cattolici piemontesi, nella quale ciascuno di noi può
riconoscersi se possiede anche una sola piccola parte di spiritualità attiva, e
soprattutto sincera. La sua storia è tanto breve quanto semplice, non ha
mistero alcuno, non ha segni di peccato o malcelato orgoglio. Una donna
semplice, mite e gentile, che ha offerto le piaghe della sofferenza a Dio e
alla Madonna, ringraziando per aver avuto il grande dono della sopportazione.
Sesta di nove fratelli (ai quali lei sola sopravviverà) Caterina nacque a
Vinovo il 31 maggio 1906, da Lucia Rena, donna pia, esemplare e affezionata ai
suoi figli, e da Giovanni, un onesto contadino, cattolico e praticante: in casa
Gho ogni sera si recitava tutti insieme il Santo Rosario. Sin da piccola Tinin fu sempre stata vivace, piena
di salute e di buon umore. I primi anni della sua vita li spese lavorando in
campagna, poi, a 15 anni, comprendendo le necessità di una famiglia numerosa
quale era la sua, entrò in fabbrica, nel reparto spedizioni della ditta
vinovese di conserve alimentari di Giuseppe Martino. Alzava casse tutto il
giorno, sovente molto pesanti. Un giorno, salendo su una scala con una cassa
sulle spalle, perse l’equilibrio e, cadendo all’indietro, andò ad urtare
violentemente la schiena su altre casse che si trovavano a terra. Da quel
momento i dolori non l’abbandonarono più; ma nonostante le fitte, Tinin non si lamentò mai, anzi, continuò
a lavorare per non venir meno ai suoi doveri di figlia e lavoratrice. Aveva 18
anni ed era particolarmente robusta: pesava 90 chili ed era alta 1 metro e
novanta.
Purtroppo, con il passar del
tempo, le sue condizioni non migliorarono a causa dei dolori sempre più
frequenti e insopportabili: l’8 dicembre del 1926 Tinin si alzò per l’ultima volta, per andare a Carmagnola
(Torino), alla processione della Madonna Immacolata, alla quale restò sempre
molto devota. Dopo oltre due anni di ricoveri in ospedale e martorianti
ingessature, il 22 maggio 1928 Tinin fu operata alla colonna vertebrale nell’ospedale della Piccola Casa
della Divina Provvidenza (nosocomio dell’Istituto Cottolengo di Torino). La
diagnosi risultò infausta: compressione del midollo spinale e conseguente
interessamento del tronco e degli arti inferiori; una condizione irreversibile
anche perché, nel contempo, era sopravvenuto il morbo di Pott, una malattia dal
processo lentamente distruttivo del corpo vertebrale. Malgrado l’intervento
chirurgico che servì a rimuovere il tratto vertebrale lesionato, Tinin restò paralizzata per sempre,
ma nessuno ebbe il coraggio di dirle la verità, né i familiari né il dottor
Veramondo Ferrando, il medico condotto del paese che la curò con amore per
tanto tempo. Ma qualcuno doveva pur dirglielo. Fu monsignor Francesco Bottino,
allora parroco di Vinovo, che le diede la triste notizia, in seguito alla
quale, dopo sette anni vissuti in famiglia, decise di farsi ricoverare al
Piccolo Cottolengo del paese, una succursale periferica della Casa Madre
torinese, fondata da don Luigi Altina nel 1898, che ne fu anche il Rettore.
L’ingresso di Tinin risale al 14 febbraio 1935, come risulta dagli atti del registro al n.
1211: la diciannovesima ricoverata in quell’anno. Un ricovero durato 54 anni
(interrotto da otto pellegrinaggi a Lourdes), sempre in un letto, circondata
dalle amorevoli cure delle suore, dei parenti e degli stessi ricoverati. Tra
gli altri, la vicina di letto Angiolina Utello che, per diciassette anni, l’accudì
con infinita bontà, instancabilmente e con grande spirito di carità cristiana.
Così la ricordava Angiolina: «Mai un lamento o una smorfia trapelavano dalle sue
rosee labbra; tutto le andava bene. Anche per il vitto non aveva particolari
esigenze, era molto parca e non lesinava in complimenti. Era sempre serena e
sorridente con tutti, ringraziava il buon Dio di averle dato il dono della
rassegnazione». Un raro comportamento di vita quello di Tinin, avvalorato dal grande pregio dell’umiltà, come
grandi erano la sua dolcezza e il suo altruismo.
Nel 1982, pochi anni prima di
morire, in una intervista rilasciata ad un periodico locale, Tinin raccontava: «Nella mia giornata il tempo
più lungo lo dedico alla preghiera, perché penso sia la cosa più importante;
poi lavoro all’uncinetto, leggo, ascolto la radio e sto volentieri a
parlare con chi viene a trovarmi. Cerco di superare i momenti di sconforto
pensando che ci sono persone molto più povere di me, in tutti i sensi: se provo
a chiudere gli occhi e penso ai ciechi, ringrazio Dio di avermi dato la vista
ad un occhio (una persiana aperta che vede tutto). Nei momenti di tristezza
penso a Gesù Cristo, che è stato inchiodato sulla croce, mentre io, è vero che
soffro, ma la mia non è una croce come quella di Gesù: io non sono inchiodata.
Intorno a me ci sono diverse ricoverate, che per me sono il Cireneo e la
Veronica. Mi aiutano, con i loro servizi, a sentire meno pesante la mia croce.
Mi conforta il sapere che c’è tanta gente che mi vuole bene, in modo
particolare le mie nipoti Gilda e Lucia, mia sorella Maria e tutti i miei
parenti e amici: la gioia più grande è quando mi vengono a trovare e so che
stanno bene. Provo altrettanta gioia anche quando prego. La pena più grande è
sapere quanta indifferenza c’è nella nostra società per le persone
handicappate, specialmente per quelle che non hanno memoria e lucidità mentale.
Penso di rendermi utile agli altri soprattutto pregando; in particolar modo per
i preti e poi per tutta l’umanità. Anche se sono in questo letto da cinquantaquattro
anni, ho camminato molto; col pensiero mi trovo tante volte in Africa e in
India a camminare con questa gente. Ringrazio Dio e gli amici di avermi fatto
vedere fotografie e diapositive, che hanno portato sul mio letto un mondo che
io non ho avuto la possibilità di vedere».
Ci vuole una Edith Cavell
davanti al plotone di esecuzione, una Giovanna d’Arco sul rogo, una Anna Frank
nei campi di sterminio; ci vogliono milioni di persone private della salute e
della loro dignità per indurci a combattere veramente i nemici della vita con
la nostra intelligenza e un pizzico di umiltà.
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